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15/3/2022

I disturbi del comportamento alimentare in adolescenza di Elisa Campagnoli

I disturbi del comportamento alimentare (DCA) rappresentano quadri patologici caratterizzati da un persistente e alterato consumo o assorbimento di cibo finalizzato al controllo del peso corporeo. Tali pratiche “autodistruttive” rischiano di compromettere a tal punto le condizioni fisiche e il funzionamento psicosociale delle persone, che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha definito i disturbi del comportamento alimentare una preoccupante minaccia alla salute pubblica, ricordando che tra gli adolescenti, rappresenta ancora la seconda causa di morte dopo gli incidenti stradali.

In effetti i dati epidemiologici, anche in Italia, sono allarmanti: circa il 5% della popolazione soffre di un disturbo del comportamento alimentare (Ministero della Salute, 2014). La maggior incidenza si riscontra in età adolescenziale, con un rapporto 9:1 tra femmine e maschi, nonostante si rilevi un incremento significativo di queste patologie anche nel sesso maschile. Da sottolineare è inoltre un progressivo abbassarsi dell’età d’insorgenza, con quadri di disturbi del comportamento alimentare che si sviluppano non solo in preadolescenza, ma addirittura nel corso della prima infanzia.

Tra i quadri che attengono l’età adolescenziale e adulta bisogna distinguere tra Anoressia Nervosa, Bulimia Nervosa e il Disturbo da Alimentazione Incontrollata (Binge Eating). Quest’ultimo disturbo in particolare è uno dei nuovi scenari patologici ed è caratterizzato da episodi di voracità incontrollata, che per certi aspetti lo rendono accomunabile all’obesità clinica (anch’essa in constante aumento). Delimitare i confini delle singole diagnosi non è sempre facile, per via della natura mutevole dei sintomi, che nel corso del tempo possono assumere le caratteristiche di uno o dell’altro quadro. Brevemente, però, ricordiamo che ciò che caratterizza i quadri di anoressia e bulimia è principalmente una costante preoccupazione per il peso e per le proprie forme corporee, che si traduce in un’ossessione per la magrezza. Quest’ultima è instancabilmente ricercata dalla paziente anoressica attraverso una restrizione estrema dell’apporto nutritivo, associata a volte, a condotte di compenso, quali iperattività, vomito o uso improprio di diuretici e lassativi. La paziente bulimica invece, a fronte di rigidi periodi di restrizione dietetica, perde il controllo, andando incontro ad episodi di abbuffata compulsiva, con successive modalità di compenso.

Queste condotte rendono i disturbi del comportamento alimentare delle patologie serie, all’interno delle quali sono in gioco delicati e precari equilibri psicologici e fisiologici. Le significative alterazioni endocrino-metaboliche ad esempio non devono essere trascurate, in quanto influenzano in modo decisivo l’evoluzione della malattia e determinano dei danni che possono essere irreversibili, soprattutto in età evolutiva. Questo rimanda alla necessità, per queste situazioni cliniche, di trattamenti di carattere multidisciplinare e integrato.   

Bisogna inoltre rilevare che oggi si parla didisturbo “culture bound”, per via della  diffusione di tali quadri prevalentemente nel mondo Occidentale, dove si legano a un discorso sociale e culturale che esalta un ideale estetico fondato sulla magrezza. Oggi infatti facciamo i conti con un’insistenza sempre maggiore, soprattutto a livello mediatico, sull’immagine e sull’efficienza del corpo, quale garanzia di successo individuale. Lo scarto con questi modelli, spesso influenza negativamente il rapporto che le più giovani hanno con il loro corpo e con la loro femminilità, facendo nascere sentimenti di inadeguatezza. 

Tuttavia sarebbe sbagliato additare il contesto socio-culturale come unico responsabile di patologie tanto complesse. Dietro ai disturbi del comportamento alimentare infatti si cela spesso un disagio profondo della persona, che trova nel corpo e nel cibo un potente strumento per comunicare e far fronte al suo dolore e la sua sofferenza. Il cibo e l’alimentazione diventa così un auto-medicamento, che allontana il dolore, consentendo allo stesso tempo di vivere di un godimento solitario, che esclude tutte le relazioni. Le condotte alimentari infatti assorbono completamente la mente di chi le pratica, funzionando quindi da “anestetico” non solo rispetto alle emozioni negative, ma a ogni esperienza di vita. Il corpo “ideale”, diventa uno schermo, una barriera, che la paziente mette tra se stessa e il mondo, per evitare di rimanere ferita o delusa. Cercare rifugio in un corpo “piccolo” e senza forme, come quello dell’infanzia, perpetua infatti l’illusione di non dover crescere e non dover fare i conti con tutto ciò che nel mondo adulto le spaventa. 

L’iniziale intento di seguire una banale dieta, per rientrare nei canoni estetici proposti, è solo il preludio di un controllo alimentare che presto diventa ingovernabile e che assorbe completamente la vita della paziente. Il cibo infatti finisce per essere snaturato della sua naturale funzione nutritiva e diventa qualcosa di più complesso e sfaccettato, che si intesse con la storia personale e relazionale della ragazza. Il cibo diventa cioè uno strumento attraverso il quale esprimere e fronteggiare in maniera distorta le proprie emozioni, iscrivendosi in dinamiche relazionali che chiamano in causa tutti i legami significativi di quella persona. 

Per questo le iniziali manifestazioni del malessere delle più giovani si possono dispiegare all’interno del contesto scolastico, dove talvolta si presentano le prime difficoltà con i pari o con gli insegnanti. Il contraccolpo più duro tuttavia lo subisce la famiglia, all’interno della quale sembrano saltare tutti gli equilibri. La sregolatezza di uno dei suoi membri infatti confonde e spaventa profondamente tutti gli altri, mettendo alla prova anche il legame affettivo che li unisce. I genitori in particolare si sentono “in scacco”: terrorizzati dai rischi che corrono le loro figlie, o negano il problema, facendo finta di non vedere, oppure si colpevolizzano, diventando schiavi del sintomo della figlia. 

La scommessa nel percorso di cura è quello di trovare una soluzione alternativa al sintomo, che consenta alla giovane di uscire dal rapporto distorto con il cibo, per promuovere modalità più funzionali di far fronte alla sofferenza. La sfida è quello di trasformare la “crisi” in una potenziale crescita per la persona, per il suo nucleo familiare e per il suo contesto di vita. 

 

 

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